LADAKH, IL PARADISO DELL’ INDIA.
E anche un po’ l’inferno!
Ladakh, il paradiso dell’India, così riporta uno degli innumerevoli cartelli che sono piazzati lungo la strada che sale da Manali a Leh. E sembra davvero di dover arrivare in Paradiso tanto la strada sale e si inerpica tra i tornanti, fino ad essere sopra le altre montagne, sopra il mondo intero.
Erano anni che volevo arrivare fino in Ladakh e per anni ci ho girato attorno: Nepal, Tibet, Sichuan, Sikkim, Bhutan, mancava proprio questo ultimo pezzetto di terra per toccare, ancora una volta, il cielo.
E Leh appare all’orizzonte, il suo vecchio palazzo reale a fare da sfondo a questa piccola splendida cittadina ma ormai votata al turismo, dove la paccottiglia finta-tibetana e le sciarpe finto-kasmir la fanno da padrone. Visitiamo i monasteri della vallata ognuno con la sua storia, tutti bellissimi anche se sembrano mancanti di sentimento e spiritualità. Manca la vita che scalda l’interno del monastero e mancano i fedeli con il loro bagaglio di preghiere e con i loro rosari continuamente sgranati tra le ruvide mani.
Ne ho visitati tanti di monasteri in giro per il mondo e questi ladakhiani spesso sembrano ricchi di autocompiacimento, quasi ad essersi trasformati in musei. Gli interni sono però bellissimi, il pavimento in legno consunto ricorda quanti piedi lo hanno calpestato, quanti monaci e fedeli hanno pregato nelle sale piene di vecchissime tanke, le pitture sacre.
Nell’ultimo pomeriggio il cielo di Leh offre uno spettacolo particolarissimo: grosse nuvole nere, quasi viola, tratteggiano disegni unici, riccioli e volute che si perdono in altezza e il palazzo reale, scenografia dell’intero abitato, baciato dal sole si trasformava nel faro di tutta la vallata.
Ha piovuto, ma molto poco per quello che tutti ci aspettavamo visto un cielo di quella portata. La luce intermittente dei fulmini mi ha fatto addormentare con apprensione che si è tramutata in preoccupazione quando ha iniziato a piovere tutto ciò che fin da qualche ora prima si attendeva. La pioggia è stata violenta, fortissima e dalle fragili finestre della camera, l’acqua è copiosamente entrata, quasi a ricordarci che la natura qui è tutto, è la forza sopra ogni cosa.
La mattina seguente si percepiva qualcosa di strano: la strada era completamente vuota dalle decine di persone che di solito la animano, tutti i negozi ancora chiusi.
Con il biglietto aereo pronto e con lo zaino in spalla, inizio a capire che nella notte era successo qualcosa di grave, la città era ferita. L’aeroporto è chiuso, per oggi non sarà possibile partire per Delhi, forse domani. In questa realtà sospesa, l’aria è pesante, il fango sulle strade è già diventato terra che trasforma l’aria irrespirabile, negli angoli delle strade sono ammassate montagne di rifiuti per la felicità di cani e mucche che pascolano tra bottiglie di plastica e cartoni.
Inizio a scendere verso la città bassa, quella città non turistica, vibrante di vita comune, vita indiana, tibetana, mussulmana. Non si scorge nulla, solo centinaia di persone che scendono, scendono…
Salgo su uno sperone di roccia e davanti ho uno spettacolo inaspettato: un’onda di fango, nella notte, aveva travolto tutto. Case, auto, edifici commerciali e la grande stazione dei bus: tutto era un ammasso di macerie e rottami. Nella collina di fronte il fango aveva ricoperto molte case; cinque le ruspe già in azione supportate da centinaia di braccia che facevano il passamano portando sulla strada pietre ma anche coperte, vestiti, oggetti di uso quotidiano.
Moltissimi turisti si riconoscevano tra i volontari accorsi ma tutto era privo di una regia comune, nessuno coordinava, nessuno organizzava, non c’erano ambulanze, i feriti venivano caricati sui cassoni di alcuni pick-up senza nessun tipo di assistenza.
E noi, dall’altra parte della strada, a guardare attoniti, questo brulicare di gente che con i vestiti colorati quasi dipingeva un arcobaleno di speranza sulla montagna di fango. Lo sguardo poi si è allungato in tutta la parte di valle visibile: l’aeroporto in lontananza aveva le piste allagate, il viale che collega Leh con il resto della vallata raccoglieva fango, macerie, tronchi di albero, auto rovesciate e molto probabilmente anche corpi. Due piccolissimi monovolume, che in città fungevano da taxi, erano incastrati uno dentro l’altro all’interno di una ruota di preghiera, quasi a essere benedetti nel loro ultimo tragitto.
Non sapevo cosa fare, cosa pensare, ero impotente davanti a tanto vedere. Nella mia testa si agitavano troppi pensieri: a trecento metri di distanza dalla mia camera era successo tutto questo. Nelle ore successive sulle mie spalle pesava uno zaino emotivo pesantissimo, e il carico si è ulteriormente appesantito quando nel pomeriggio è stato lanciato un allarme per una possibile frana a ridosso del centro turistico della città.
Quando, come ogni sera, l’energia elettrica è stata tolta, il tempo si è dilatato: controllavo se i tuoni che si udivano in lontananza erano preludio di pioggia e soprattutto invidiavo fortemente chi aveva trovato rifugio vicino al vecchio palazzo reale, in cima allo sperone, era sicuramente il posto più sicuro dell’intera città.
Felici che fosse arrivata mattina, il nostro unico pensiero era quello di arrivare in aeroporto per riuscire a prendere un aereo.
Le centinaia di turisti accalcati all’interno del piccolo aeroporto, la pioggia che scendeva e l’ufficio della compagnia aerea chiuso, erano dei cattivi segnali, infatti una voce perentoria annuncia che per quel giorno, tutti i voli venivano cancellati. L’unica pista del piccolo aeroporto di Leh è incastonata tra le montagne, gli aerei fanno fatica ad operare se le condizioni meteorologiche non sono ottimali. L’esperienza di viaggiatrice e la caparbietà hanno fatto si che non ci muovessimo da quella sala d’aspetto, sperando che la pioggia lasciasse la vallata, così come invece si apprestavano a lasciare l’aeroporto molti altri stranieri spinti dal pessimismo. Dopo qualche ora il sole era tornato a splendere e tre aerei avevano potuto scendere sul quel breve nastro d’asfalto: le fasi dell’imbarco vedevano tutte le nostre facce molto tese, stanche, incolori, incredule che potessimo vivere quella situazione. I tempi indiani che dilatavano la chiusura dei portelloni dell’aereo sono stati una ferita dolorante, quel dolore che si riversa in tutto il corpo mentre dall’alto guardavo la terra ladakhiana: ferita ma immensa e meravigliosa. Il caldo soffocante di Delhi, mal sopportato solo qualche giorno prima, aveva un altro sapore, era un abbraccio che sentivo sulla pelle. La tensione si è abbassata e mi sono resa conto di quanto la fortuna ci aveva regalato.
Nei miei viaggi cerco sempre di perdermi tra le pieghe del mondo, dove la vita reale è più forte, dove i colori sono più pieni, ricchi di sfumature, dove l’incontro con due occhi ti fa stringere lo stomaco. In Ladak i colori sono stati grandiosi, il viaggio lo sarà ancora di più nei ricordi e la fortuna di poterlo raccontare non è misurabile.
Leh, Ladakh, India 2010.